Interviste e percorsi

Interviste e percorsi

Dai tuoi interessi al mondo del lavoro

L'artigiano della curiosità: trasformare parole in podcast

Intervista a Matteo Bordone, laureato in lettere, autore e conduttore di podcast, programmi radiofonici e televisivi

Immagine per gentile concessione di Matteo Bordone

A 15 anni, Matteo Bordone lo troviamo già davanti a un microfono, in una radio di Varese, mentre conduce un programma musicale. Pochi anni dopo arriva il primo impiego a Radio 2, dove partecipa a diverse trasmissioni, fino a diventare nel 2000 autore e voce di Dispenser, programma di intrattenimento a cui lavora per sette anni, e di Condor, una trasmissione radiofonica dedicata alle notizie internazionali, condotta insieme a Luca Sofri. Nel frattempo scrive per riviste quali Rolling Stone e Wired, partecipa come opinionista a diverse trasmissioni televisive, tra cui X-Factor, di cui conduce nel 2007 anche gli show Ante Factor ed Xtra Factor. Dal 2016 conduce Digital Word per Rai Scuola e dal 2019 è autore e voce di Tienimi Bordone, un Podcast riservato agli (oltre 50 000) abbonati del giornale online Il Post, a cui si è affiancato joypad, dedicato ai videogiochi, sempre per Il Post ma aperto a tutti.

In questa intervista ci racconta come ha costruito la sua professionalità, che cosa vuol dire oggi, e per lui, ideare, produrre, pubblicare ogni giorno contenuti audio in grado di interessare e incuriosire il suo pubblico.

INDICE

  • Ci racconta in che cosa consiste principalmente il suo lavoro?
  • Lei ha lavorato molto per la radio, ci sono analogie con quanto fa ora?
  • Che cosa la entusiasma di più in questo lavoro?
  • Come è arrivato a fare questo mestiere?
  • Le si è laureto in Lettere, giusto?
  • Come mai questa scelta?
  • Che cosa si è portato dietro dall’esperienza universitaria?
  • Quali sono le sfide più grandi da tenere presente per chi vuole fare un lavoro tipo il suo?
  • Che cosa ha scoperto passando dalla radio al podcast?
  • Come si svolge la sua giornata lavorativa?
  • Che cosa consiglierebbe a qualcuno che vuole avventurarsi sui suoi passi?
  • Come si fa a mettersi dalla parte di chi ascolta?
  • Che cosa pensa che si aspetti da lei il suo pubblico?
  • A proposito di relazioni, quanto contano nel suo lavoro le relazione con altre figure professionali?
  • C’è qualche esperienza lavorativa che ricorda con particolare affetto e che ritiene particolarmente importante?
  • Blockbuster era una catena di negozi dove si compravano o noleggiavano i film, che cosa è cambiato da allora?
  • CONCETTI IN PRATICA – L’importanza del tono

PER APPROFONDIRE

  • Scopri dove si studia lettere

Ci racconta in che cosa consiste principalmente il suo lavoro?

Il mio lavoro consiste nel trovare tutti i giorni, in un angolino delle cose che succedono, qualcosa che possa essere sviluppato sotto forma di un racconto di circa una decina di minuti, che sia interessante, gradevole, di intrattenimento, ma che abbia un elemento di verità e uno di interesse per il pubblico del Post. Quindi, deve essere qualcosa che risponda un po’ alla curiosità potenziale del pubblico e un po’ ai miei interessi, e stia esattamente a metà strada. Non posso parlare esattamente di tutto quello che interessa a me, però con un po’ di lavoro si possono portare le proprie passioni, i propri pallini, le proprie curiosità in uno spazio che invece è più condivisibile.

Lei ha lavorato molto per la radio, ci sono analogie con quanto fa ora?

Sì, ho fatto a lungo lo speaker radiofonico a Radio 2, in una trasmissione in cui bisognava prendere dei contenuti e organizzarli, trovando un equilibrio tra l’elemento di informazione e quello di intrattenimento: è sempre stata un po’ questa la mia chiave, fare da ponte fra contenuti e pubblico, senza toccare un livello da addetto ai lavori specializzati ma senza essere troppo larghi e discorsivi, cercando una via di mezzo che è di difficile identificazione ma che esiste, e che ho sempre perseguito.

Che cosa la entusiasma di più in questo lavoro?

Mi entusiasma l’elemento artigianale, il fatto di poter lavorare su un’idea di base, che a volte è molto piccola; quindi, studiare nel piccolo come sviluppare questa idea: nel prima, nel dopo, di fianco, per analogia, o per ossimoro, o come punto di partenza di un percorso. Le forme narrative del racconto radiofonico sono sempre state molto aperte, e, in particolare lo sono quelle del podcast, che ha una vicinanza maggiore al pubblico e una libertà formale superiore, perché ha meno vincoli. È uno spazio di grande creatività.

Come è arrivato a fare questo mestiere?

A fare il mestiere della radio, quasi per caso. A un certo punto, quando ero adolescente, mio fratello lavorava in una radio libera di Varese, e iniziai lì con un programma di musica. Ho poi incontrato, tramite il gruppo hiphop varesino Otierre, la Pina [ndr. conduttrice radiofonica], tramite lei negli anni Novanta ho fatto un programma a Radio 2 che si chiamava In aria; qualche anno dopo è arrivato Dispenser, sempre a Radio 2, e da lì sono andato avanti e ho sempre ho fatto quello che prende degli argomenti specifici da un angolino del panorama e li porta in mezzo, con un racconto che li renda godibili per tutti.

Le si è laureto in Lettere, giusto?

Sì, in Lettere, indirizzo Storia del cinema, sui film thriller degli anni Quaranta dell’RKO Pictures.

Come mai questa scelta?

Perché mi è sempre piaciuto l’artigianato e quindi mi piacciono i prodotti culturali inseriti in un contesto produttivo complesso. Non mi è mai piaciuto il mito romantico dell’autore da solo, per cui, anche se io le cose poi spesso le faccio da solo, passo il tempo a tirare in mezzo persone, a cercare riscontri. Penso che l’industria culturale, o l’artigianato culturale, sia la forma di produzione di cultura dominante nella contemporaneità, e mi è sempre piaciuto quel tipo di cultura. Per esempio, mi piacciono le canzoni pop prodotte al Brill Building fra gli anni Cinquanta e Sessanta a New York, anche se erano fatte in batteria, anzi, mi piace proprio quello: mi piace il lavoro continuativo, fatto su dei canoni, sui quali si fanno piccoli cambiamenti. E in quel cinema degli anni Quaranta si faceva così. Quindi, sono partito da lì, però lavoravo già quando mi sono laureato e facevo già la radio.

Che cosa si è portato dietro dall’esperienza universitaria?

Io volevo pagare l’affitto con le parole, il mio obiettivo era quello. Quindi fare Lettere indirizzo Storia del cinema era un modo per non fare una carriera prettamente indirizzata all’insegnamento o accademica, che non mi interessavano, e occuparmi di storie. Studiare le storie è stato un modo per studiare il lavoro fatto per raccontarle, per costruirle; alla fine la letteratura, e lo studio della letteratura all’università, sono soprattutto uno spazio critico, storico e formale. Se vuoi occuparti anche di narratologia, oggi esistono molti corsi. All’epoca non c’erano posti dove studiare modi per raccontare le cose, e studiare il cinema, che ho sempre amato, all’università mi è sembrato un modo per farlo un po’ per conto mio, ma ero consapevole del fatto che lì mi costruivo degli strumenti che poi dovevo gestirmi io, e dovevo declinare io a seconda di che cosa volessi fare. Perché Lettere non è Ingegneria, è una facoltà “metodo champenois”, se vuoi farla benissimo, puoi farla benissimo, io sono anche uscito bene, però puoi anche studiare cose vaghe e uscirne che non hai una direzione, e quindi te la devi dare.

Quali sono le sfide più grandi da tenere presente per chi vuole fare un lavoro tipo il suo?

Secondo me bisogna sempre ricordarsi che è vero che ciò che c’è, c’è, ed è affidabile e riconosciuto, ma è anche vero che c’è già, quindi bisogna sempre partire dal presupposto che il nostro lavoro sia l’applicazione di un’indole, o di un’idea che si può applicare in infiniti modi. Almeno, io l’ho sempre pensata così, poi quando ho iniziato a scrivere, la crisi dei giornali non c’era e quindi uno poteva avere alcune collaborazioni e vivere serenamente. Adesso le cose sono cambiate e uno si deve industriare in altre maniere, ma la sfida più grande è quella di trovare una professionalità che sia a monte del lavoro specifico che stai facendo. Cioè, sapersi muovere con le parole, con il racconto delle cose, con la divulgazione di certi contenuti, con i toni ecc., ti permette di applicare queste capacità a varie situazioni. Ecco, nel mio lavoro, che non è un lavoro fatto di attenzione e preparazione verticale, la sfida più grande è essere duttili e non affezionarsi troppo a una sola cosa.

Che cosa ha scoperto passando dalla radio al podcast?

La voce è molto più veritiera dell’immagine, e quindi alla radio le persone percepiscono di più, sono più attente alle sfumature. Per esempio, in un momento di imbarazzo in radio non puoi sorridere, come si fa in tv, perché il sorriso equivale a secondi di silenzio: devi sempre trovare il modo per uscirne con le parole. Nella struttura della radio, con il suo flusso, l’alternanza di persone ecc., c’è un rapporto che ha una sua continuità con il podcast, però non è identico; il podcast è decisamente più intimo. Poi a me è successa una cosa particolare: siamo partiti con il podcast Tienimi Bordone a settembre del 2019 e nel giro di tre mesi e mezzo io ero chiuso in casa, come tutti, insieme a tutti, a raccontare la  pandemia, con un tasso di improvvisazione che era il 96%. Io facevo podcast da pochi mesi, me la cavavo, ma come fare dal punto di vista tecnico, dall’apparecchiatura a come organizzo una puntata, l’ho scoperto insieme al pubblico. Diciamo che la mia esperienza è stata un po’ condizionata da questo; poi mi sono reso conto che il mio podcast ha acquisito improvvisamente un valore inaspettato per le esistenze quotidiane delle persone e così, diciamo un po’ navigando sull’imperfezione, mi sono costruito uno stile, ed è stato un po’ quello il punto: un po’ per come sono fatti i podcast, un po’ per quello che è successo, il livello d’intimità è cresciuto enormemente, e quindi, nel bene e nel male, bisogna tenerne conto.

Come si svolge la sua giornata lavorativa? Immagino che le sue giornate non siano tutte uguali…

No, non sono tutte uguali. Faccio diverse cose, e a seconda degli impegni che ho, mi organizzo. Il lavoro del podcast è quotidiano e nei giorni feriali devo avere cinque argomenti di cui parlare, quindi ho un taccuino di appunti sul telefono dove costantemente mi scrivo le cose che, nel flusso di ciò che percepisco, leggo, vedo, di cui mi parlano, penso possano essere forse meritevoli di una puntata; quindi me le segno, poi ci lavoro di continuo, alcune le espando, finché non mi metto a fare le puntate. Certe volte, se ho altri impegni, faccio le cinque puntate nei primi due giorni della settimana, altre volte faccio una puntata al giorno. A volte devo coinvolgere delle altre persone, e quindi mando le domande in anticipo. Insomma, il mondo del podcast è un’officina sempre in attività, sempre più o meno aperta. C’è sempre un angolino nella mia testa che ci sta pensando, poi ci sono le altre attività, quelle per cui devo scrivere e il podcast dei videogiochi, che hanno delle scadenze più regolari. È questo il mio lavoro quotidiano, con dei pezzi di perdere tempo, che sono fondamentali.

Che cosa consiglierebbe a qualcuno che vuole avventurarsi sui suoi passi?

Adesso è cambiato tutto, rispetto ai miei tempi, quindi una persona che è portata e ha voglia, sicuramente ha già cominciato a produrre contenuti, e se non ha cominciato, deve iniziare. Esiste una regola, che è quasi matematica, e che dice che è impossibile diventare bravi a fare qualcosa senza fare schifo prima, quindi bisogna muoversi a fare schifo e farlo a lungo, e cercare di migliorare nel tempo; magari rendersi conto che si può anche non essere portati. Ci sono quelli che non sono portati ma si impegnano talmente che alla fine riescono a fare bene quel lavoro, senza essere partiti da una condizione di indole adatta. Però, in assoluto, la cosa più rilevante è che adesso tutto è disintermediato, non è come nei miei tempi, io sono dovuto andare a colloquio da un curatore della Rai, e farmi conoscere, e fare delle puntate di prova ecc. Oggi funziona tutto per esperienza diretta, senza intermediari, quindi un consiglio da dare è cominciare a produrre contenuti e mettersi sempre dalla parte dell’ascoltatore, di chi dovrà fruire di quei contenuti e chiedersi, nella moltitudine di esempi che ci sono oggi già, che senso ha il tuo contenuto, cioè che apporto dai tu a questo mondo così gigantesco? Penso che la totale libertà nella produzione di contenuti sia propedeutica al resto e sia a portata di mano per tutti, per cui per prima cosa uno si deve mettere a fare, e fare tanto, continuando a cambiare, cercando delle formule e vedere che riscontro ha su di sé, sulla propria felicità, e rispetto ai commenti, prima dei parenti, poi degli amici, poi degli altri.

Come si fa a mettersi dalla parte di chi ascolta?

Io ho anche il riscontro diretto, però bisogna un pochino non fidarsi e un pochino fidarsi, cioè bisogna sempre chiedersi se non si stia dicendo in quel momento una sciocchezza enorme, ma soprattutto qualcosa del tutto irrilevante per chi ascolta. Io mi sono abituato all’idea di trovare un modo per far sì che le persone si fidino, per poi portarle a fare un giro, e se non le porto da nessuna parte, non mi diverto. Se mi metto nei panni del pubblico, e mi chiedo che cosa vuole, vado esattamente dove il pubblico sa già cosa troverà, per cui a) non so se lo so fare, b) non c’è niente di divertente. Per me il percorso deve essere divertente in sé: la strada che si fa per raggiungere un contenuto deve essere divertente indipendentemente dal fatto che il contenuto sia pertinente per la vita di chi ascolta o no, perché per come faccio le cose, la chiave è il trasferimento della mia curiosità agli altri, non dei contenuti. L’obiettivo è restituire un’esperienza che sia positiva e divertente, che magari poi arriva anche all’obiettivo, ma questo non è necessario, perché altrimenti si finisce ad avere sempre a che fare con la tagliola del gusto del pubblico. Il gusto del pubblico è una questione, l’interesse del pubblico è un’altra, bisogna riuscire a entrare nello spettro dell’interesse del pubblico, poi ciascuno ha il proprio gusto e bisogna anche avere la presunzione di poterlo influenzare, ma partendo dall’interesse: il gancio è quello.

Che cosa pensa che si aspetti da lei il suo pubblico?

Dovendo dire un sacco di cose tutti i giorni, io non posso ipotizzare che le persone da me si aspettino la verità; le persone si aspettano chiaramente un punto di vista interessante e un’esperienza di ascolto divertente, piacevole, altrimenti in modo molto semplice, senza neanche farci un pensiero, non mi sentono più. Perlatro è tutto molto imperscrutabile: perché le persone apprezzano il programmo, quando lo ascoltano, cosa preferiscono… Bisogna avere anche il coraggio di non piacere a tutti nello stesso modo. Non facendo una rassegna stampa, non dando conto quindi di un mondo che esiste, devo costruire dei confini di questo mondo mio che non siano asfittici, ma che siano riconoscibili.

A proposito di relazioni, quanto contano nel suo lavoro le relazione con altre figure professionali?

Renzo Ceresa, che è stato il mio capo alla radio e che mi ha insegnato tutto, mi ha sempre detto: «Ricordati che, molto più che con la tv, alla radio con la voce passa il tono; il tono passa sempre, se ti stai rompendo, si sente, se ti stai divertendo, si sente, se stai dissimulando, si sente.» Quindi, per me non è stato importante costruire un parco di nomi di esperti che fosse il più autorevole in assoluto, ma che fosse un parco di persone che io conoscessi bene, che risultassero simpatiche e affidabili, e ci abbiamo messo anni in alcuni casi per conoscerci e trovare un tono comune, io il mio, loro il loro. Se dovessi scrivere un libro di 400 pagine su un argomento e fossi l’editore, cercherei un esperto che in assoluto sia il migliore, ma facendo io un lavoro di divulgazione, di ricerca di una via di mezzo, ho cercato per le collaborazioni delle persone che condividessero con me una certa facilità nell’enunciare le cose, una certa leggerezza, anche se si parla di massimi di sistemi o si parla di felicità o di morte: non essere mai ampollosi, non fare cadere le cose dall’alto per me è fondamentale.

C’è qualche esperienza lavorativa che ricorda con particolare affetto e che ritiene particolarmente importante?

Fare Dispenser è stata un’esperienza nella quale tutti quelli che lavoravano al programma si rendevano conto che probabilmente sarebbero stati l’ambiente di lavoro e il lavoro più fighi possibile. Avevo 25 anni, in redazione eravamo in molti, tutti alla pari. È stata un’esperienza iniziale molto, molto formativa, in cui tutti leggevano il lavoro di tutti, tutti correggevano il lavoro di tutti, nessuno si offendeva. Mi piacciono i lavori corali, quando vengono bene danno una grande goduria. Poi da lì ho fatto un po’ di tv, e altro, ma imparare a occuparsi del prodotto così in tanti, senza permalosità, è stato importante.

A dire il vero, il primo vero lavoro è stato da Blockbuster per otto mesi: quello è stato interessante perché lì vedevi il pubblico dal vero. All’epoca ci andavano tutti da Blockbuster, era la livella, conoscevi i gusti e anche le duttilità del pubblico, come la capacità di farsi guidare, se uno gli dava la voce giusta, a scoprire le cose belle.

Blockbuster era una catena di negozi dove si compravano o noleggiavano i film, che cosa è cambiato da allora?

Sì, oggi non esiste più e i contenuti sostanzialmente nemmeno si comprano. Scegli una piattaforma di streaming e su quella piattaforma ti muovi liberamente, ne parli con le persone, ma non c’è un momento dedicato a parlare dei film. I negozi di film, di musica e di libri, di cui ora sopravvivono solo i terzi, sono dei posti dove, anche se non compri niente, dedichi un quarto d’ora, mezz’ora, due ore del tuo tempo solo a parlare di film, di musica, di libri. Un momento di dedizione che è paragonabile alla raccolta delle olive, in cui nella pratica non fai niente se non quello: parlare di dischi, di libri, di film con sconosciuti, con il comune interesse per quella cosa lì, con i gusti più diversi.

Ma anche le persone cambiano…

Bisogna considerare che il mercato del lavoro è rapido, ci vogliono diversi anni per studiare, da quando parti a quando arrivi, il mercato del lavoro è cambiato. Ma soprattutto cambia la tua indole, cambi tu, e puoi anche scoprire che la cosa che avevi pensato di fare da adolescente in realtà ti annoia a morte… e quindi se vuoi vivere felice devi trovare un’altra cosa da fare. Poi ci sono anche quelli che si stufano, e quindi debbono cambiare 4-5 volte, come dicevano i greci ethos to anthropo daimon, l’indole è una forza sovraumana, bisogna andargli dietro… Anche perché l’alternativa è sedersi e dirsi «sto qui attaccato anche se sono triste», ma non è consigliabile.

CONCETTI IN PRATICA

L’importanza del tono

Ci aiuta a capire qualcosa di più dell’importanza del tono? Se il tono fosse un ingrediente di una torta, per esempio…

Nel mio lavoro, secondo me, il tono non è lo zucchero a velo, è proprio l’impasto con cui si fa la torta, quindi devi perseguire quello prima di tutto. Il tono, il registro con cui si comunica è troppo importante. Io l’ho imparato alla radio, dove questo fenomeno è spietato, per cui tu puoi dire letteralmente la più intelligente delle cose, ma se è portata con il tono sbagliato il problema non è che viene presa male: sparisce, evapora, non esiste. La storica differenza fra forma e contenuto in certi posti regge di più e in altri evapora. E la radio è uno dei luoghi dove evapora completamente. All’inizio, quando facevo Dispenser, il nostro produttore di allora Giorgio Bozzo ci disse: «Ragazzi, in ogni servizio di tre minuti fatto alla radio bisogna dire tre cose fondamentali, non sei, perché se ne dite sei, non resta niente, bisogna dirne tre e devono essere portate nel modo giusto.» Ora, senza stare rigidamente a questa regola del tre, è proprio quello il punto, bisogna stabilire quello che si dice nel tempo a disposizione basandosi sulla questione della percezione, del rapporto con il pubblico e del tono.

Nel podcast spesso fa intervenire delle voci fuoricampo, che commentano quello che dice. Come le è venuta l’idea e che funzioni hanno?

Mi è venuta perché, il rischio, facendo il programma da solo, è di parlarsi addosso, e quindi avevo bisogno di qualcuno che quando dicevo qualcosa di sostanziale suggerisse al pubblico che quella cosa in realtà non fosse sostanziale, perché io stesso vivo quel dubbio, ma sul piano drammaturgico bisogna esplicitarlo in modo da abbassare il peso delle cose che dico; poi, se le cose valgono, passeranno lo stesso. Per evitare questa uniformità assoluta del segnale audio, cioè sempre la mia voce che parla, ho cominciato a mettere delle altre voci, che cambiano nel corso del tempo. Possono essere degli altri me stesso urlanti e arrabbiati, oppure delle persone che vengono dalle regioni più disparate, dato che a me piace molto fare le parlate regionali. Peraltro, all’inizio, potevo mettere massimo 20 secondi di canzoni, proprio come punteggiatura, e quindi era necessario trovare delle altre voci, non potevo coinvolgere sempre altre persone e quindi mi sono sdoppiato, triplicato, insomma… mi sono moltiplicato.