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Intervista a Ornella Favero, giornalista e responsabile del volontariato nazionale nelle carceri

Immagine di copertina per gentile concessione di Ornella Favero

Ornella Favero, giornalista, oltre 20 anni fa ha creato Ristretti Orizzonti, un giornale coordinato e scritto da persone detenute, che racconta la vita reale in carcere. Oggi è responsabile del volontariato nazionale nelle carceri. «Il mio lavoro è creare un ponte fra il mondo dentro, e la realtà esterna, colmare il baratro. Negli anni ho capito che le persone possono cambiare».

Ancora oggi non esiste un modello di offerta formativa condiviso nelle carceri, al di là della possibilità di frequentare la scuola per chi non ha un titolo di studio. Ogni realtà si gestisce a suo modo. L’80% delle attività rieducative è gestita dal volontariato; sono pochi i bandi e i progetti di questo genere finanziati, e comunque ogni struttura gestisce in autonomia le proprie risorse e attività. C’è estremo bisogno per il futuro di figure competenti, che possano affiancare operatrici e operatori penitenziari, che sappiano lavorare in squadra per rendere questo luogo sempre meno una prigione e sempre più un’opportunità di rimessa in gioco.

INDICE

  • Che cosa trova più esaltante del suo lavoro?
  • Ci spiega che cosa fa una giornalista in carcere?
  • Come si svolge una sua giornata tipo?
  • Che cosa ha imparato studiando e che cosa sul campo?
  • Come si arriva a fare il suo lavoro?
  • Per concludere, che cosa è bene sapere se si vuole fare il suo lavoro?
  • CONCETTI IN PRATICA - Ci racconta un progetto che ritiene particolarmente utile?
  • LE PROFESSIONI – Educazione carceraria e mediazione penale

PER APPROFONDIRE

  • Scopri dove si studiano le scienze umane

Che cosa trova più esaltante del suo lavoro?

L’aspetto più appassionante del mio lavoro in carcere è vedere che anche chi ha commesso dei reati gravissimi può veramente cambiare. Non accade sempre, ma molto più spesso di quanto immaginiamo. Dipende da che cosa queste persone trovano qui dentro. Negli anni ho scoperto che da fuori tendiamo a cedere a semplificazioni rispetto al dipingere l’indole di una persona, o a credere alle sue reali possibilità di cambiamento. Siamo abituati ad affibbiare delle etichette con enorme facilità, in particolare su persone che hanno commesso dei reati pubblicamente riconosciuti come “Male assoluto”. In realtà, è tutto più complesso e appassionante. Bisogna ascoltare le storie dei detenuti, che è ciò che da più di 20 anni facciamo con Ristretti Orizzonti, e aiutarli a raccontarsi, a condividere quello che vivono con le persone fuori dal carcere, come per esempio i ragazzi delle scuole: che cosa hanno fatto e perché, dalla loro prospettiva. Questo è fondamentale per fare prevenzione, e per far sì che una persona che ha commesso un reato grave inizi ad assumersene la responsabilità.

Ci spiega che cosa fa una giornalista in carcere?

Di fatto la nostra è una redazione a tutti gli effetti. Produciamo un giornale scritto da detenuti e detenute che racconta come si vive realmente in carcere. Quando ho messo in piedi questa rivista mi sono posta due obiettivi: cercare di creare un ponte fra il mondo dentro e la realtà esterna, colmare il baratro, e nel contempo fare seriamente informazione dal carcere. La qualità prima di tutto: non ho mai inteso questa attività come un palliativo per alleviare la noia ai detenuti, ma come un modo per investire sulle loro potenzialità per migliorare le condizioni di tutti. Non ci sono persone che non vengono coinvolte a priori: persino “ex mafiosi” collaborano con il nostro giornale. E vorremmo cercare di coinvolgere anche le sezioni dei cosiddetti sex offender, che a loro volta hanno spesso storie di abuso alle spalle. Molti di loro hanno bisogno di cura più che di galera, e anche fra loro in alcuni casi ci sono persone pronte per essere coinvolte. La valutazione è comunque collettiva, da parte di tutto il team che lavora con le persone detenute.

Il ruolo del giornalista in carcere non è tuttavia strutturale. Si tratta per lo più di volontari o di persone assunte per progetti educativi finanziati da progetti terzi. Le figure strutturali presenti in carcere sono l’educatore e, da poco, il mediatore penale.

Come si svolge una sua giornata tipo?

Vado quasi ogni giorno in redazione dentro il carcere, e nelle riunioni discutiamo sugli argomenti da trattare nel giornale. Facciamo molte interviste, specie in videoconferenza; recentemente abbiamo intervistato Gad Lerner, per esempio, devo dire che persone competenti, conosciute per la loro professionalità, tendono a dare la disponibilità per iniziative di questo tipo, dato che non è così frequente farsi intervistare da un detenuto. È molto arricchente per tutti. Quando inizia l’anno scolastico poi abbiamo mattine dedicate ai ragazzi, in cui ospitiamo dentro il carcere gli studenti delle scuole superiori o dell’Università dando loro la possibilità di dialogare direttamente con i detenuti, di confrontarsi con loro in redazione.

Che cosa ha imparato studiando e che cosa sul campo?

Io studio moltissimo, per esempio sul fronte della rieducazione, e partecipo a incontri di formazione; alcuni li organizziamo anche noi, per esempio momenti di formazione con magistrati di sorveglianza che si occupano di esecuzione della pena. Chiaramente la vera esperienza poi la si fa con le persone, entrando in carcere. Ci si rende subito conto che in Italia non si fa ancora abbastanza per la rieducazione, che dovrebbe essere l’essenza della pena, e che ci sono moltissime cose che andrebbero messe in discussione. Il carcere è un tema molto complesso e trascurato dalla politica. Basti pensare che per 54 mila detenuti ci saranno 35 mila agenti e neanche 800 educatori: i numeri parlano da sé. Di riflesso c’è poco dibattito sulla rieducazione dei detenuti, sui percorsi graduali di reinserimento, che sono la chiave per abbattere i tassi di recidiva per chi esce dal carcere, ancora molto alti. Insomma: dal di dentro e ascoltando le loro storie, ho imparato che serve investire non solo sul carcere ma sui percorsi di accompagnamento, mentre oggi ci si concentra maggiormente sulla sicurezza. La stessa Costituzione dice chiaramente che la pena deve tendere alla rieducazione, mentre non parla di altre funzioni della pena. E la Costituzione, non dimentichiamo, è stata scritta da persone che il carcere l’avevano sperimentato!

Come si arriva a fare il suo lavoro?

Ci sono arrivata un po’ per caso. Mia sorella insegnava in carcere e un giorno mi ha chiesto di fare formazione sulla comunicazione. Lì, un gruppo di detenuti mi chiese se potevo aiutarli a scrivere qualcosa che li rappresentasse e da lì ho iniziato a pensare di fare un foglio di informazione. Abbiamo cominciato discutendo intorno a un tavolo delle loro storie, di come erano finiti a commettere dei reati. All’inizio passavo le mie giornate a correggere i testi scritti a mano. Si trattava per lo più di storie sconnesse, di racconti che esprimevano nella loro struttura e scrittura la confusione, il caos, che la persona aveva dentro, ma anche la voglia di mettersi in discussione. Ricordo la storia di una persona detenuta, che aveva un unico punto in tutta una pagina. Un flusso di coscienza senza punteggiatura, che ricalcava esattamente la vita di questa persona, confusa, ingarbugliata, senza punti fermi. Con il tempo ho iniziato a costruire la redazione, e Ristretti Orizzonti è diventato un luogo di dibattito riconosciuto anche fuori Padova, dove lavoro. Oggi sono responsabile del volontariato nazionale nelle carceri. Nel mio caso si tratta appunto di volontariato, io facevo l’insegnante come mestiere. Una delle battaglie è che il volontariato  sia sempre più considerato nel dialogo con le istituzioni. Non siamo ospiti e al contempo dobbiamo portare professionalità, consapevolezza, competenza. Per questo i volontari in carcere vengono formati con corsi specifici da noi e da altre associazioni in tutta Italia. Rimane il fatto che – e questa è un’altra battaglia che portiamo avanti – è necessario che ci siano momenti di formazione congiunta tra operatori professionali del carcere e operatori del Terzo Settore, bisogna mettere insieme sguardi diversi. Oggi sono sempre più i progetti di cooperative sociali che danno lavoro, progetti sostenuti e finanziati da enti locali, comuni e regioni. Ma c’è bisogno di più spinta, di persone competenti che vogliano cambiare le cose. Io stessa ho seguito corsi di formazione per volontari e poi un corso per diventare mediatrice penale. Per le figure “strutturate” come gli educatori oggi ci sono i concorsi pubblici, ma sono ancora troppo pochi, serve un impulso forte per creare progetti di inclusione sociale finanziati e che coinvolgano persone con diverse professionalità.

Per concludere, che cosa è bene sapere se si vuole fare il suo lavoro?

La cosa forse più importante da sapere è che si dovrà imparare a mantenere non la “giusta distanza” ma la “giusta vicinanza”, come dico sempre io. Il nostro compito non è essere equidistanti dalle persone detenute, ma, un concetto che ho ripreso dalla Giustizia riparativa, equiprossimi, cioè vicini in modo giusto a chi è in carcere, ma con grande attenzione anche a chi i reati li ha subiti. Bisogna inoltre sapere che non è un volontariato semplice perché non abbiamo di fronte persone fragili e richiedenti aiuto come sono i malati, gli anziani, le persone fragili. I detenuti sono persone anche forti, che però stanno vivendo una situazione di difficoltà, e serve la forza di aiutarli, ma anche di richiamarli alla responsabilità.

CONCETTI IN PRATICA

Ci racconta un progetto che ritiene particolarmente utile?

La prima è la possibilità di organizzare incontri fra detenuti e studenti delle scuole. Negli anni abbiamo vissuto insieme momenti incredibilmente intensi. Una volta per esempio una studentessa ha raccontato la sua esperienza di persona rapinata in casa, e la sua paura, non solo in quel momento ma anche successivamente al reato. Parlava della sensazione di aver sempre paura che qualcuno potesse entrare in casa sua e farle del male. È stata un’esperienza molto forte per alcune persone detenute presenti, che non erano abituate a questo genere di condivisione da parte delle vittime. Chi compie questi reati tende solitamente a minimizzare il proprio gesto, per esempio adducendo il fatto che mai avrebbe usato un’arma, o che mai avrebbe fatto del male.

Un’altra cosa che trovo utilissima sono i percorsi con le vittime di reati gravi come Agnese Moro e Fiammetta Borsellino, la figlia del magistrato ucciso in un agguato di mafia. Questi incontri hanno dato una svolta importante anche alla nostra percezione del confronto fra vittima e autore di reato, perché spesso il detenuto per il fatto di essere in carcere si ritiene una vittima, mentre qui si ribalta completamente la prospettiva. Dico solo che un detenuto che ha fatto questo percorso di confronto e dialogo con le vittime, oggi che ha finito di scontare la sua pena è diventato mediatore penale!

 

LE PROFESSIONI

Educazione carceraria e mediazione penale

Il volontariato è un modo importante per approcciare un mondo così particolare come il carcere, e valutare se è la strada professionale che fa per noi.  Se lo è, si può diventare educatore in carcere, professione per la quale è necessario superare un concorso a cui si accede con titoli considerati validi dal Ministero di Grazia e Giustizia, solitamente afferenti al campo umanistico, e in particolare al corso di laurea in Scienze dell’Educazione o della Formazione. Sono solitamente incluse anche le lauree vecchio ordinamento in pedagogia, i laureati in scienze dell’educazione degli adulti e della formazione continua, e alcune lauree di ambito sociologico, psicologico e giuridico, da verificare con attenzione in ogni bando di concorso.

Nella riforma del Processo penale recentemente approvata c’è una parte dedicata alla Giustizia riparativa e alla mediazione, che per la prima volta detta le disposizioni per la formazione di questa figura abbastanza recente: il mediatore penale.  La formazione iniziale consiste in almeno duecentoquaranta ore, di cui un terzo dedicato alla formazione teorica e due terzi a quella pratica, seguite da almeno cento ore di tirocinio presso uno dei Centri per la giustizia riparativa. L’accesso ai corsi è subordinato al possesso di un titolo di studio non inferiore alla laurea e al superamento di una prova di ammissione culturale e attitudinale. La formazione continua consiste in non meno di trenta ore annuali, dedicate all’aggiornamento teorico e pratico, nonché allo scambio di prassi nazionali, europee e internazionali.