Interviste e percorsi

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Dai tuoi interessi al mondo del lavoro

Fare giornalismo, oggi

Intervista a Francesco Costa, giornalista e scrittore, laureato in Scienze storiche e politiche

Immagine di copertina per gentile concessione di Francesco Costa
Crediti fotografici: Marco Ragaini

Francesco Costa, giornalista e vicedirettore del giornale Il Post, autore di tre libri di grande successo sugli Stati Uniti, conduce ogni mattina Morning, una rassegna stampa commentata disponibile ogni mattina per gli abbonati del giornale per cui lavora. Inoltre, è autore del podcast Da costa a costa, realizzato da freelance e finanziato mediante crowdfunding, con cui ha approfondito e raccontato varie elezioni americane attraverso un giornalismo d’inchiesta sul suolo americano. Ha scritto tre libri sugli Stati Uniti e la miniserie di documentari The American Way.

Nato a Catania, dove si è laureato in Scienze storiche e politiche, si è poi trasferito a Roma, per continuare gli studi e, parallelamente, avviare le prime collaborazioni giornalistiche. Nel 2010 si è trasferito a Milano, per contribuire alla nascita e poi alla crescita del Post, fondato dal giornalista Luca Sofri e che oggi conta oltre 600 000 visitatori unici giornalieri e più di 50 000 abbonati.

In questa intervista ci racconta che cosa vuol dire fare giornalismo oggi, un lavoro che nei principi non è cambiato, ma in cui si innestano nuovi e vari modi di raccontare, nonché un rapporto diverso con chi legge; inoltre, condivide le passioni e racconta le difficoltà che possono caratterizzano il suo lavoro, e qual è stato il suo percorso di formazione, mettendo in risalto l’importanza dello spirito d’iniziativa personale per costruirsi una professionalità e trovare la propria strada in un settore lavorativo in continua innovazione.

INDICE

  • Come descriverebbe il suo lavoro?
  • Come si svolge il suo lavoro quotidiano?
  • Oltre all’attività all’interno del giornale per cui lavora, ha fatto delle inchiesta giornalistiche per conto suo. Ce ne può parlare?
  • Come nasce la sua passione per gli Stati Uniti?
  • Che cosa la entusiasma di più del suo lavoro?
  • Come è arrivato a fare questo mestiere? Dove nasce il suo interesse per il giornalismo?
  • Come è passato dagli studi al lavoro?
  • Che cosa si porta dietro dagli studi e che cosa ha dovuto imparare sul campo?
  • Quali sono le sfide di oggi per chi fa la sua professione?
  • Quali competenze e attitudini sono necessarie per fare il suo mestiere?
  • C’è qualcos’altro che ritiene utile sapere per chi intende intraprendere una carriera giornalistica?
  • CONCETTI IN PRATICA - Che cosa vuol dire scrivere un libro?
  • LE PROFESSIONI – Come funziona la redazione di un giornale?

PER APPROFONDIRE

  • Obiettivo: giornalismo – scopri percorsi di studio e sbocchi professionali
  • I numeri delle professioni: giornalismo – scopri quanti giornalisti e giornaliste ci sono in Italia e in quali settori lavorano

Come descriverebbe il suo lavoro?

La descrizione, diciamo “tecnica”, del mio lavoro è quella di giornalista, che è una definizione che riguarda più l’attività che la sua applicazione concreta. Il mestiere del giornalista è legato all’indagine della realtà, o meglio di porzioni di realtà. Per esempio, indagare e raccontare la politica industriale di un grande gruppo automobilistico, la politica estera della Cina o un omicidio avvenuto in un certo quartiere. In pratica, studiare gli elementi che determinano quello che accade attorno a noi e le ragioni per cui accade. E poi, a seguito di questa indagine, raccontarne e divulgarne i risultati. Quando avviene un fatto, quindi, innanzitutto studio e poi racconto quello che ho studiato. Però quello che studio può essere diversissimo, come anche il modo con cui lo racconto: con il testo, con le immagini o con la voce, in un programma televisivo o radiofonico, in un articolo o in un libro o in una storia su Instagram. Quindi, la definizione è necessariamente molto ampia, perché il giornalista è chi il giornalista fa, al di là di quello che dice la legge, che stabilisce un percorso di praticantato, esami, eccetera; il giornalismo è un’attività prima ancora che un mestiere.

Come si svolge il suo lavoro quotidiano?

Io lavoro in un giornale online, questa è l’attività che prende la maggior parte del mio tempo; il giornale si chiama Il Post, e ne sono vicedirettore. Oggi, la mia principale mansione al Post è condurre ogni mattina un podcast che si chiama Morning, una rassegna stampa commentata che esce intorno alle 8 del mattino e mi impegna fin dalle 5 del mattino. Poi sono coinvolto nelle decisioni strategiche del giornale: in quali aree investire, su cosa puntare, analizzare i progetti per il futuro: non sono più coinvolto nell’attività quotidiana su decidere che cosa pubblichiamo oggi, domani, o su cosa va in apertura di giornale, che invece è delegato all’altra vicedirettrice, Elena Zacchetti. Questo era il lavoro che ho fatto per dieci anni, in pratica fino a che non ho cominciato a fare Morning. Il lavoro di Morning non si esaurisce nelle tre ore in cui preparo la rassegna stampa: durante la giornata devo a restare in contatto con l’attualità, quindi, anche se non faccio il giornale, leggo le notizie e mi mantengo aggiornato.

Oltre all’attività all’interno del giornale per cui lavora, ha fatto delle inchiesta giornalistiche per conto suo. Ce ne può parlare?

Sì, ho un’attività parallela che svolgo da freelance. Si tratta di un’attività specialistica sugli Stati Uniti, su politica e cultura americana, che è un tema per cui ho avuto sempre grande interesse fin da quando ero studente universitario, e che poi si è trasformato per me in un’area professionale, in cui sono riuscita a pubblicare con testate importanti e da freelance nel tempo libero con le raccolte fondi. In particolare, ho condotto per quattro stagioni un podcast sugli Stati Uniti, Da Costa a Costa, e altri due più piccoli e brevi, The Big Seven e Milano Europa, ho scritto e interpretato una miniserie di documentari sugli Stati Uniti per DAZN, che si chiama The American Way, ho scritto a lungo una newsletter e ho pubblicato tre libri, sempre sugli Stati Uniti [v. Concetti in pratica a fine articolo – Che cosa vuol dire scrivere un libro?].

Come nasce la sua passione per gli Stati Uniti?

Nasce negli anni in cui ero a Roma: stavo cercando di lavorare, ma non lavoravo ancora, cercavo delle cose su cui scrivere per diventare più bravo, per farmi notare, provavo a scrivere articoli da mandare ai giornali per farmi pubblicare. La cosa che mi appassionava di più in quel momento era la candidatura di Barack Obama alle primarie democratiche, lui era uno sconosciuto, aveva un nome un po’ strano, una campagna elettorale apparentemente senza storia, era sfavoritissimo, mi appassionava sapere se ce l’avrebbe fatta. Però mi sono accorto, mentre provavo a scrivere dei pezzi su Obama da mandare ai giornali, che mi mancavano troppe informazioni: non capivo perché Obama in uno Stato vinceva e in un altro perdeva, perché le regole da uno Stato all’altro erano così diverse. Queste domande mi portarono a studiare, a leggere dei libri per essere in grado di capire meglio quella storia, che intanto settimana dopo settimana diventava più appassionante, quindi io non potevo più staccarmene. Quando sono entrato al quotidiano L’Unità alla fine del 2008 (Obama si è candidato nel 2007), tra le prime cose che mi hanno fatto fare, mi hanno mandato in un locale, dove gli americani residenti a Roma seguivano la notte elettorale. Quindi: provo a fare il giornalista per la prima volta nella mia vita e nella mia carriera, sono lì per lavoro, in mezzo agli americani che assistono a un evento storico e si commuovono per la prima volta per l’elezione di un presidente afroamericano. Io ovviamente vengo comprato a vita da tutto questo, voglio continuare a seguire queste storie, voglio cercare di continuare di cercare di capire queste persone per me così affascinanti, di cui pure non capivo tantissime cose.

Che cosa la entusiasma di più del suo lavoro?

Io sono una persona molto curiosa, quindi la cosa che mi appassiona di più è la possibilità di trovare risposte a delle domande, capire perché un quartiere è messo meglio di un altro dentro la stessa città, scoprire le ragioni per cui un’azienda riesce a crescere tantissimo e un’altra invece va molto male, comprendere perché un partito guadagna consensi e un altro li perde. Chiaramente non è questa l’unica forma di giornalismo possibile, c’è anche un giornalismo molto più legato alle indagini sul campo, il mio lo è, ma lo è meno rispetto, per esempio, a chi va a seguire la guerra in Ucraina. Il mio è un giornalismo più legato all’analisi dei dati e alla critica culturale.

Come è arrivato a fare questo mestiere? Dove nasce il suo interesse per il giornalismo?

Io ricordo che da ragazzino quando mi chiedevano che cosa avrei fatto da grande dicevo «fare quello del telegiornale», quindi è un interesse che avevo già da molto piccolo. Ho imparato a leggere molto presto, per mio desiderio, mi raccontano i miei genitori. Ho dei ricordi di me che gioco con libri e giornali, a casa dei miei sono sempre circolati molto. E poi durante gli anni delle scuole superiori si è concretizzato un mio interesse per la storia, come materia scolastica; grazie anche a un insegnante, un professore di storia e filosofia che per me è stato molto importante, con cui sono felice di essere ancora in contatto. E poi il lavoro nel giornalino scolastico: trovavo in quel contesto lì un modo, anche divertente, per scoprire chi fossi, per mettermi alla prova, per costruire delle amicizie; era una comunità e un’attività in cui mi trovato a mio agio. Poi sono andato all’università, ho studiato Scienze politiche, in particolare ho preso la laurea triennale in Scienze storiche e politiche all’Università di Catania. Inoltre, all’ultimo anno delle scuole superiori, ho scoperto un interesse per la Seconda guerra mondiale, per i fatti del Novecento, in generale, come la storia del fascismo, del comunismo, della guerra fredda, e da questi anche un interesse per l’attualità, per le informazioni che mi davano modo di capire meglio i fatti che accadevano attorno a me.

Come è passato dagli studi al lavoro?

Dopo la laurea triennale volevo provare a fare il giornalista davvero, ma non avevo idea da dove cominciare, perché nessuno nella mia famiglia faceva il giornalista o lo aveva fatto, non avevo nessun contatto. All’epoca vivevo all’epoca a Catania, in Sicilia, dove non c’è un grande mercato editoriale giornalistico, e sentivo che mi mancava un po’ di formazione. L’università mi ha formato sul piano storico, ma non su quello giornalistico. Ho scelto quindi di iscrivermi alla laurea specialistica in Editoria e scrittura a La Sapienza, a Roma. Il corso aveva poche materie davvero giornalistiche, molta letteratura, era molto interessante ma non erano le cose che cercavo. Una volta a Roma ho cominciato a lavorare, all’inizio quasi gratis, con dei contatti che mi ero costruito attraverso un blog di attualità che ho aperto nel 2003 mentre studiavo all’università; nella comunità dei blogger italiani mi ero fatto qualche lettore ed ero diventato lettore di altri, facevo parte di quella community e a Roma ho cercato di valorizzare quei contatti. Ho cominciato a scrivere gratis su qualche sito di politica, su un giornale che si chiamava Liberal, ho scritto forse un paio di pezzi sul Riformista, su Europa, tutta stampa che parlava di politica romana. Finché non sono riuscito a ottenere un contratto a progetto al quotidiano L’Unità, dopo aver mandato un curriculum: sono entrato come collaboratore, in particolare come moderatore dei commenti del sito, però avevo messo un piede in una redazione per la prima volta e lì ho cominciato a imparare il mestiere. Da lì ho lasciato l’università, quindi non ho mai preso la laurea specialistica alla fine, perché ho cominciato al lavorare, prima a L’Unità, poi a Internazionale, poi di nuovo a L’Unità e poi sono andato a Milano a fare Il Post con Luca Sofri nel 2010, e sono ancora lì.

Che cosa si porta dietro dagli studi e che cosa ha dovuto imparare sul campo?

Mi porto dietro molto dagli studi, per quanto non mi abbiano dato nulla rispetto a  quello che mi serviva sul piano tecnico del mio lavoro. Quello che mi è mancato è stata la professionalizzazione, nessuno mi ha insegnato a fare il giornalista, per esempio rispetto alla verifica delle notizie, alla lettura dei giornali stranieri, e alla comprensione di meccanismi che oggi fanno parte del mio lavoro quotidiano. Mi ritengo anche fortunato di aver trovato dei contesti in cui ho potuto impararle bene quelle cose lì. Vedo con i miei colleghi quanto i posti dove passi i primi anni della tua carriera possano in qualche modo, non segnare, perché poi si cambia, ma mettere su dei binari da cui non è facile dopo cambiare carriera. Però mi ha aiutato molto il percorso che ho fatto durante l’università, quelli sono gli anni che ho dedicato alla mia formazione in senso più ampio, non solo universitario: quelli degli studi sono gli anni in cui scopri un autore che ti piace, ti compri tutti i suoi libri e te li leggi tutti, ti immergi nella cultura, non solo quella dei libri accademici. Quindi, quegli anni lì, li ritengo particolarmente importanti, soprattutto il periodo che ho passato a Roma.

Quali sono le sfide di oggi per chi fa la sua professione?

Ne cito tre. La prima: questo è un momento molto strano per l’industria che sostiene questo lavoro, perché avvengono due fenomeni contemporanei, giganteschi e contradditori. Da una parte, i media di informazione e i giornali non sono mai stati letti così tanto, abbiamo accesso ai giornali di tutti il mondo, tramite un dispositivo che chiunque ha in tasca; questa è la prima generazione dell’umanità che ha problemi con l’abbondanza, e non con la mancanza, di informazioni. Eppure le aziende che producono queste informazioni, sono ormai sempre più “pericolanti”: dalla pubblicità, dagli abbonamenti che si riducono, ai costi che crescono, i giornali non stanno bene. Queste due condizioni convivono e portano a un sacco di distorsioni del nostro mercato: io devo fare il giornalista, ho bisogno di utilizzare i social media, ma i social media rispondono a regole che non sono pensate per la mia professione, come la sintesi, l’engagement, l’emotività ecc. Io sono costretto a nuotare in un’acqua che non è sempre la mia, rispetto ai mezzi con cui cerco di fondare la mia attività giornalistica; i libri hanno ancora un grosso spazio nel mercato culturale, però non ti danno l’accesso a un gran parte della popolazione, per cui la televisione per esempio è ancora importante; anche i social sono importanti, ma funzionano con regole che oggi penalizzano i contenuti giornalistici a vantaggio dell’intrattenimento.

Secondo grosso problema: una conseguenza di questi fenomeni, ma anche un’opportunità di chi fa oggi questo mestiere, è cercare di costruire delle community personali. A me è capitato, per esempio. I follower che ho sui social media sono persone che leggono anche Il Post, ma poi seguono me e se qualcosa non gli piace di quello che ho scritto, cercano me. Ci sono molte opportunità in questo processo, per esempio, le persone che sono delle complete outsider possono costruirsi un pubblico e una carriera in un modo che non sarebbe stato possibile prima. Per contro, questi meccanismi costringono chi fa questo mestiere a un rapporto così diretto, intimo e personale con le persone che in certi casi è dannoso, perché può dare alla testa del giornalista che si crede chissà chi, perché l’ego quando ricevi tanti messaggi poi ne risente, o può dar luogo a conformismo, nella ricerca dell’applauso facile della tua community. O, ancora, può sottoporre a linciaggio e campagne di odio che prendono di mira chi dice una cosa contro qualcuno di particolarmente popolare.

Chi faceva questo mestiere, per esempio nel 1978, non aveva a che fare con questo fenomeno, al massimo incontrava qualcuno al bar, che, se lo riconosceva, gli diceva qualcosa. Era completamente anonimo, oggi non lo è più.

E la terza sfida?

Sul piano personale, ma penso che non sia solo il mio caso, è un lavoro che richiede moltissime energie. Non energie fisiche, perché non andiamo a lavorare in miniera, o in fabbrica in una catena di montaggio, però è un lavoro in cui si fa fatica a staccare, che non prevede orari stabili, che ti porta a viaggiare tanto. Non è un caso che tanti giornalisti e giornaliste hanno poi come partner altri giornalisti o giornaliste: è difficile costruirsi una vita normale facendo questo mestiere. Non è l’unico mestiere faticoso, ce ne sono sicuramente di peggiori, però va tenuto presente che è un mestiere che ti chiede tanto.

Quali competenze e attitudini sono necessarie per fare il suo mestiere?

Il nostro mestiere si fa con le parole, poi, al di là che ci sia un testo scritto, o letto, magari alla radio o in tv, c’è sempre una scrittura dietro qualsiasi contenuto giornalistico. Quindi, tutte le competenze che hanno a che fare con le parole e con l’utilizzo delle parole, la lettura di contenuti in modo approfondito, l’avere anche una cultura e una competenza su come cambia la lingua, sono importanti. È un mestiere in cui bisogna essere bravi nello scegliere le parole, quindi anche l’etimologia è utile. Insomma, bisogna conoscere i nostri attrezzi e saperli maneggiare nel miglior modo possibile.

Per quanto riguarda un’altra competenze, si può parlare di “lingue”. Ogni lingua che impari a leggere ti apre una porta verso nuove storie, un nuovo mercato, ti fornisce nuovi spunti e informazioni che ti possono aiutare a lavorare meglio. Direi che ci vuole anche quella curiosità nell’andare a guardare oltre le cose. Servono anche disponibilità a viaggiare, a mettersi in una posizione di ascolto, e la capacità di arrivare in un contesto, in un luogo, cercando di non avere verità preconfezionate. Osservare e saper osservare: non so come sviluppare queste competenze, se non con l’esperienza. Però può essere utile anche conoscere qualcosa che riguarda la sociologia, dato che si parla di persone, e l’antropologia: la storia degli esseri umani e la storia del passato ci spiegano molte cose sul nostro presente e quindi ci aiutano a capire il futuro.

Poi ci sono le competenze tecniche relative alla diffusione del contenuto della tua ricerca. Quindi, dai corsi di scrittura veri e propri, che ti insegnano a scrivere un articolo e i testi più letterari, a corsi di montaggio video e audio, quelli per la produzione di un documentario, per imparare a fare un podcast o a gestire un canale di Telegram: non bisogna per forza padroneggiare tutte queste tecniche, e se ne aggiungeranno altre di nuove ogni giorni che passa, ma più ne conosciamo, e più opportunità abbiamo quando maneggiamo una storia per decidere se farne un articolo, un podcast, un video o qualsiasi altra cosa.

C’è qualcos’altro che ritiene utile sapere per chi intende intraprendere una carriera giornalistica?

Il mestiere del giornalista dal punto di vista della missione è rimasto lo stesso rispetto alle prime persone che facevano questo mestiere. Oggi bisogna molto di più “inventarselo”: mandare un curriculum e vedere se qualcuno risponde è il metodo con cui è meno probabile trovare lavoro in questo settore. Provare a farsi notare per le proprie capacità e il proprio lavoro è importante, anche se comporta fare un investimento in termini di tempo, magari mentre si fa un altro lavoro e occupandosene nel tempo libero. Oppure, cercando di fare degli stage, o producendo in proprio dei contenuti: oggi anche da casa si possono produrre contenuti di alta qualità se si è un po’ svegli, senza spendere troppo soldi, studiando, diventando competenti e bravi su qualcosa e cercando di farsi notare per la qualità della cose che si fanno. Non è garantito che si riesca,  anzi, è anche difficile. Possiamo dire anche che non è giusto che sia così, perché ci sono molto persone che sono ottimi giornalisti ma non sono in grado, o non vogliono, stare con la faccia davanti al video e raccontare sé stessi, però la realtà oggi è purtroppo questa. Questa non è una professione che ha un accesso trasparente, non trovi gli annunci sul giornale “cercasi redattrice”, quindi bisogna inventarsi dei modi per entrare. Ci sono quelli relazionali, però lì consigli non ne servono, ma gli altri hanno a che fare con il cercare di diventare bravi e farsi notare con qualcosa di più che il singolo curriculum.

CONCETTI IN PRATICA

Che cosa vuol dire scrivere un libro?

Scrivere un libro è forse la cosa più difficile che mi è capitato di fare nella mia carriera, a lungo ho anche pensato di non essere stato in grado, al di là della qualità, intendo proprio in grado di scrivere così tante parole una dietro l’altra. Tant’è che prima che uscisse il primo, per due anni ci sono state discussioni, pensieri, offerte che ho rifiutato perché non mi sembrava di avere un libro da scrivere. La cosa più difficile è la forma, che secondo me ti costringe ad avere le idee più chiare prima di scrivere, a raccogliere il maggior numero di fonti, il maggior numero di dati, e a non sbagliare. Un po’ per l’eternità dell’oggetto libro, in quanto non lo puoi correggere, una volta che è stampato è stampato. Un po’ per la presunzione dello sforzo: davvero ho una cosa da raccontare così importante, da prendere la carta dagli alberi, stamparla, e poi spedire con dei furgoni questa cosa che ho da dire a tutte le librerie d’Italia? Ogni pagina ti chiedi: ma ha senso che io scriva questa cosa? Mentre una storia la faccio su Instagram, non mi costa nulla e l’indomani è sparita. Quindi, il libro mi mette molta più pressione, richiede una qualità più alta del lavoro ed essendo un testo molto più lungo di qualsiasi altro che leggiamo sui giornali, o nei vari dispositivi, la lotta per ottenere l’attenzione di chi ti legge è particolarmente difficile, specialmente in un momento così ricco di stimoli. Ti costringe davvero a pesare ogni singola parola, ogni singolo avverbio, ogni singola frase, ogni scelta di contenuto. Per me è un lavoro veramente complicato, eppure  il risultato finale se ti riesce bene, o se comunque alla fine ne sei soddisfatto, è il modo più completo possibile per raccontare una cosa, perché noi siamo evidentemente limitati come essere umani quando seguiamo un fenomeno; ma non c’è nessun fenomeno che non sia legato a tantissimi altri fenomeni, non c’è nessun problema che abbia una sola causa, e quindi l’unico modo per provare a raccontare una cosa nella sua interezza, è farlo in trecento pagine, non lo puoi fare in 10 storie su Instagram o un in articolo. Però, appunto, cammini su una corda sospesa, o almeno io è così che mi sento quando scrivo un libro.

LE PROFESSIONI

Come funziona la redazione di un giornale?

Dipende molto dalla dimensione dalla redazione, e da quello che il giornale sceglie di coprire, perché il mondo è grande e di storie ce ne sono quante ne vuoi. Il New York Times, ha scritto sulla sua prima pagina «All the News That's Fit to Print», cioè ogni numero «contiene tutte le notizie che meritano di essere stampate». Però poi ci si chiede: com’è che ogni giorno ci sono esattamente il numero di notizie che ci stanno nel giornale? C’è una scelta, e quella scelta se sei in cinque la fai in un certo modo, mentre se la redazione è fatta da quaranta persone la fai in un altro modo. Detto questo, le redazioni si compongono di due tipi di figure: le persone che scrivono, che poi sono anche quelle che indagano e che raccolgono il materiale, e le persone che commissionano, editano, valutano e pubblicano i pezzi delle persone che scrivono. Queste ultime sono dette editor, mentre le persone che scrivono sono dette staff writer. Nelle redazioni italiane solitamente non c’è questa distinzione, in genere sono tutti giornalisti e giornaliste, però ci sono sempre figure (caporedattori e caporedattrici) che svolgono azioni di supervisione e di responsabilità nella scelta dei contenuti. In particolare, valutano le proposte arrivate dalla redazione e scelgono di cosa scrivere, chi scrive e che cosa, quanto spazio dedicare a ogni notizia, e attraverso queste scelte comporre il giornale. Se il giornale è di carta, la prima riunione si svolge ogni mattina intorno alle 10 o anche un po’ prima, più tardi si fa un punto della situazione, e a fine giornata si fa l’ultima riunione sulla prima pagina, che si fa per ultima; nel frattempo, nel corso del pomeriggio, si costruisce il giornale.

Nel caso di un giornale online, quindi di un giornale che non esce una volta al giorno ma è continuamente “fuori”, ovviamente non si può stare perennemente in riunione. Per la mia esperienza, nella redazione di un giornale online ci sono molte più relazioni interpersonali durante la giornata; mentre per il giornale cartaceo ci si vede al mattino, ci si spartisce le cose da fare e poi ci si rincontra a un certo punto, in un giornale online il lavoro è più collettivo, capita di lavorare in due o tre allo stesso pezzo, per esempio uno scrive e l’altro raccoglie il materiale. Il modo di lavorare è più collegiale ma, sostanzialmente, la struttura organizzativa è la stessa: chi scrive fa delle proposte, spesso in un ambito delimitato di competenze, che siano esse scientifiche, politiche, economiche - al Post un po’ meno perché ci piace sempre l’idea che tutti possano fare tutto naturalmente seguendo le inclinazioni di ciascuno -, quindi il caporedattore decide quali proposte mandare avanti. La decisione viene presa insieme alla redazione, ma la responsabilità della scelta alla fine è del caporedattore, così come il distribuire il lavoro. Le persone che scrivono, quando hanno finito tornano dal caporedattore, e questo scambio avviene più volte al giorno: ogni volta che c’è un articolo da chiudere, non soltanto quando si chiude il giornale.