Interviste e percorsi

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Intervista a Vania Cauzillo, laureata in lettere, regista teatrale e imprenditrice culturale

Immagine per gentile concessione di Vania Cauzillo

Vania Cauzillo sulla carta è regista di teatro e opera partecipata, libera professionista, imprenditrice culturale. «Nella pratica ciò che faccio è avvicinare le persone che sono lontane dalla cultura e non ne usufruiscono quotidianamente, nella mia Basilicata, con uno slancio verso l’Europa».

Spesso vi è l’errata convinzione fra le persone giovani, che a fare la differenza quanto a opportunità di vivere di cultura, di teatro, di opera, addirittura, sia scegliere il prima possibile gli indirizzi di studio “giusti”. L’esperienza di Vania e di molte altre persone professioniste come lei racconta un’altra verità: oggi come ieri conta ciò che hai dentro e come alimenti la tua mente sin da giovane. Contano le contaminazioni, le letture, gli incontri, la capacità di osservare e far proprie le cose imparate “a bottega”. Anche con una laurea in lettere si può diventare registi e progettare il futuro culturale della propria terra.

INDICE

  • Che cosa trova più esaltante del suo lavoro?
  • Ci spiega che cosa fa di preciso come imprenditrice culturale?
  • Come si svolge una sua giornata tipo?
  • Tra le esperienze che hai maturato, quali sono le più utili per il suo lavoro?
  • Che cosa ha imparato studiando e che cosa sul campo?
  • Perché ha scelto questo lavoro?
  • Come si arriva a fare il suo lavoro?
  • Che cosa consiglia a chi deve ancora intraprendere una carriera?
  • Per concludere, che cosa è bene sapere se si vuole fare il suo lavoro?
  • CONCETTI IN PRATICA – Ci può raccontare qualcosa di più su un progetto che ha condotto?
  • LE PROFESSIONI – Imprenditoria culturale

PER APPROFONDIRE

  • Scopri dove si studia lettere
  • Leggi altre interviste sull’imprenditoria culturale

Che cosa trova più esaltante del suo lavoro?

Sicuramente la dimensione immaginifica, anche decisamente folle talvolta, del mio lavoro. Poter pensare anche idee giganti, molto complesse e difficilissime da realizzare e riuscire a trovare la dimensione economica, sociale e di contesto per realizzarle. Per esempio, riuscire a far scrivere un’intera opera lirica a 150 persone dagli 8 ai 70 anni, lo abbiamo fatto per il programma ufficiale della Capitale Europea a Matera nel 2019. Io lavoro molto nel campo dell’opera di comunità, intesa come opera per tutti, per provare a essere davvero accessibili. Un’altra dimensione spettacolare del mio lavoro è il dialogo europeo. Già: pur vivendo da sempre nel profondo sud, e lavorando fra Potenza e Matera e Melfi , in Basilicata, una regione dove non esiste nemmeno un teatro stabile, un teatro d’opera, dove non c’è una struttura per questo genere d’arte, il mio  (inteso sempre come il nostro di compagnia) dialoga e lavora quotidianamente con grandi istituzioni culturali all’estero, anche importanti, come il teatro d’Opera di Bruxelles, il Festival di Aix Saint Provence e tanti altri. Contrariamente a quanto si immagina, le grandi realtà sono molto interessate alla contaminazione con persone provenienti da territori più periferici, di altri paesi, dove spesso lavorano persone dalle grandissime passioni e professionalità.

Ne servono molte di capacità per creare e mandare avanti un’impresa culturale in zone economicamente considerate “depresse”. Da qualche anno faccio parte del comitato direttivo del network europeo RESEO, una grande associazione internazionale che è stata creata 25 anni per facilitare il dialogo fra chi lavora come artista freelance facendo innovazione, grandi e medie compagnie di produzione, ricercatori e università e soprattutto per condividere pratiche e anche problemi dei dipartimenti “Educational - Outreach” dei teatri d’Opera: ovvero tutte quelle persone e professionisti che si occupano di trovare, scovare, accogliere, creare nuovi pubblici per le arti performative, inventando progetti e processi artistici nuovi e innovativi.

Ci spiega che cosa fa di preciso come imprenditrice culturale?

La doverosa premessa è che non esiste un modo unico di vivere una professione artistica. Io ho trovato negli anni il mio modo di fare la regista. La mia quotidianità è elaborare delle idee e pensare a come renderle dei progetti concreti. Non lavoro da sola perché non è nella mia indole; imparando a conoscermi ho capito che io sono fatta per lavorare in team. Ho una mia compagnia, che non è – per capirci – una compagnia teatrale di persone che realizzano uno spettacolo e lo portano nei teatri, ma un’impresa culturale, cioè un gruppo di persone che realizza progetti culturali e che riesce a prodursi e quindi pagarsi lo stipendio. Alcuni di noi sono attori, altri musicisti, altri registi, chi è invece esperto più di comunicazione, ma di fatto tutti abbiamo competenze e slancio imprenditoriali, il più delle volte imparate sul campo, “a bottega” nelle nostre esperienze pregresse e nella quotidianità. Io lavoro a regie di spettacoli che possono partire da miei idee o da persone che mi chiedendo di svilupparne delle loro. Lì l’ispirazione (che chiamerei più volentieri studio applicato!)  mi viene guardando i lavori di altri e immergendomi in altri campi. La compagnia ha riunioni settimanali, esattamente come una qualsiasi altra impresa, dove fissiamo le priorità nei progetti che gestiamo e ci dividiamo i compiti. C’è chi cerca sempre nuovi bandi a cui partecipare, chi recluta le figure professionali che ci servono per realizzare un progetto, e via dicendo. Ne gestiamo circa 7-8 l’anno, e normalmente i progetti durano 2-3 anni, a seconda della tipologia di finanziamento, lavoriamo con una trentina di partner complessivi nazionali e internazionali. Sono un sacco di incontri, contaminazioni, idee. In questi giorni, per esempio, parte un progetto nel carcere di Potenza dove i detenuti, anche quelli al 41 bis, avranno la possibilità di lavorare su un tema, di affrontarlo attraverso l’opera, di andare in scena cantando e recitando (questo progetto si chiama “Teatro Oltre i Limiti”, della compagnia teatrale Petra).

Una cosa che facciamo molto è “andare nelle comunità”.  Nel concreto significa cercare persone da coinvolgere direttamente nei contesti che vogliamo toccare con la nostra arte e che difficilmente ne sarebbero inclusi. Un altro esempio: stiamo lavorando ora a un’opera femminista, basata sulla Carmen di Bizet. Abbiamo lavorato con ragazze migranti a Milano e in Basilicata, perché volevamo realizzare un’opera con giovani donne. Una delle sfide era dove trovarle, e soprattutto fare qualcosa che fosse significativo per loro e non solo per noi come artisti e ci siamo riuscite, rivolgendoci a una scuola di italiano in Basilicata e proponendo alle ragazze un workshop con una brava costumista per creare i costumi dello spettacolo. Un progetto stupendo a cui siamo molto affezionata.

Come si svolge una sua giornata tipo?

Il mio lavoro quotidiano richiede di passare molto tempo al computer per trovare fondi per i nostri progetti, creare partnership e comunità e fare advocacy nel campo dell’opera education, che significa per esempio organizzare dei tavoli tematici sulla produzione di opera per bambini, così che chi produce quel tipo di lavoro possa confrontarsi con altri colleghi che stanno facendo lo stesso. Quando sono fortunata vado in sala prove o scrivo. Ora sto scrivendo due spettacoli, uno con danzatori coreografi e uno sulla figura interessantissima di Barbara Strozzi, prima donna a fare la professione di cantante nel Seicento.

Tra le esperienze che hai maturato, quali sono le più utili per il suo lavoro?

Aver lavorato qualche anno nel Cinema a Roma è stato utilissimo per farmi capire quanto complesso può essere il lavoro del set. Ho imparato che cosa significa leadership, cioè tenere lo stress senza gettarlo sulle spalle degli altri che lavorano con te.

Che cosa ha imparato studiando e che cosa sul campo?

Dallo studio e dall’osservazione dei miei “mentori” ho imparato il metodo di lavoro, come ci si immerge in un’idea, come e perché è necessario confrontarsi con gli altri per pesare le proprie  e quindi non affezionarci alla “proprietà intellettuale” delle nostre ispirazioni. Insomma: che nell’arte – e forse oso dire non solo nell’arte – vale il contrario di quanto insegnano i libri e i guru della logica da startup. Sul campo ho invece imparato che anche se si lavora insieme, la gerarchia è importante. Infine, ma non da ultimo, ho appreso che l’intelligenza è collettiva e che la differenza nella qualità di un lavoro la fa la capacità di rinunciare a ciò a cui siamo affezionati, di tagliare e togliere ciò che alla fine non è necessario.

Perché ha scelto questo lavoro?

La verità è che non l’ho mai scelto. Semplicemente non ho mai pensato di poter fare altro, non ci ho mai davvero riflettuto, e credo che molti ragazzi e molte ragazze possano capire al volo la sensazione di cui parlo. Quando avevo 16 anni la mia prima lezione di teatro mi ha cambiato la vita: mi sono detta “io sono questa cosa qui”. Questa era ed è la mia dimensione, anche non provenendo da una famiglia di artisti o di letterati.

Come si arriva a fare il suo lavoro?

Io sono nata nel 1984 e i miei anni universitari sono quelli dei primi anni Duemila, dal 2003 al 2009, gli anni della grande crisi economica, della disoccupazione, dove sin dal primo giorno studiare Lettere, come ho fatto io, significava ambire a una sola carriera, quella di insegnante, se fortunati. Internet esisteva, ma non era in grado di sopperire alle distanze fisiche come lo è oggi. A differenza della maggior parte dei ragazzi lucani poi, io scelsi di studiare all’università qui, di non emigrare. In Basilicata, così come in molte aree del Sud, la fuga di cervelli è intorno all’80%. Io sono rimasta perché già facevo teatro, e come spesso accade avevo incontrato una persona che mi ha cambiato la vita. C’era una regista che negli anni Novanta era venuta da Roma in Basilicata e aveva fondato una compagnia teatrale che io avevo iniziato a frequentare. Sono rimasta qui per poter studiare e nel contempo continuare a stare “a bottega” da lei, a fare teatro. Oggi, con tutto quello che ho fatto in 20 anni e con quello che stiamo progettando qui, so che è stata una delle scelte più felici della mia vita.

Che cosa consiglia a chi deve ancora intraprendere una carriera?

Consiglio sempre di iniziare subito ad acquisire tanta esperienza pratica, di non aspettare di iniziare a fare teatro o cinema o qualsiasi altra cosa quando si ha finito di studiare, o a trent’anni, quando le esigenze pratiche della vita – dover pagare le bollette – rendono più difficile sperimentare a cuor leggero. Mi sono iscritta a Lettere senza immaginare quanto questi anni meravigliosi di letture, di apertura della mia anima, avrebbero continuato a fiorire dentro di me, producendo idee, progetti. Il mestiere di scrivere non esisteva, e io stessa mi sentivo una persona che agli occhi del mondo era andata in “direzione ostinata e contraria”. Ma sono andata avanti seguendo quello che mi animava. Dopo la laurea ho fatto cinema per 3-4 anni a Roma e nel 2010 sono tornata a casa, in Basilicata, dove con delle socie fra i 20 e i 30 anni abbiamo prendere in mano la compagnia lasciata dalla nostra mentore che nel frattempo era mancata. Volevo lavorare per me non per altri registi altri; fare le mie cose autorialmente e a livello di impresa. Quando poi nel 2014 Matera è stata nominata Capitale Europea della Cultura, abbiamo vissuto un’enorme spinta che ci ha portati in una dimensione europea. Questa opportunità ha fatto la differenza, e oggi sento che nel campo della mediazione artistica in Europa la mia compagnia ha qualcosa da dire.

Per concludere, che cosa è bene sapere se si vuole fare il suo lavoro?

Che non si tratta di scegliere il curriculum giusto del corso di laurea giusto dell’Ateneo giusto. Nell’espressione artistica, in qualsiasi forma, conta più di tutto il tuo cammino personale, ciò che hai letto, le persone che hai incontrato, le emozioni che hai provato davanti a un’opera d’arte, le esperienze improvvise, la fatica che hai fatto, i compromessi che hai vissuto. Questo è un lavoro di compromesso, in senso positivo, perché la dimensione economica è difficile per gli artisti in Italia. Non ci sono tutele e quindi è importante da subito acquisire competenze imprenditoriali, capire come funzionano bandi, progetti, finanziamenti, come si gestiscono dei progetti nella pratica, come si fa un budget. Tutte cose che si imparano soprattutto collaborando sin da giovani con realtà che già lo fanno, e stando a osservare.

Un altro consiglio che mi sento di dare è quello di non cercare gli standard negli altri, ma cercare chi sei tu, perché un progetto funziona se anzitutto rispecchia ciò che sei tu che lo crei. Non bisogna lasciarsi imbrigliare nelle definizioni, ma trovare il proprio modo di fare quella professione, anche rispetto alle esigenze del contesto in cui ci si trova. Ascoltare, osservare, saper cambiare.

CONCETTI IN PRATICA

Ci può raccontare qualcosa di più su un progetto che ha condotto?

Uno dei progetti di cui vado più fiera che è stato parte del programma di Matera Capitale Europea della Cultura rientra nel campo della “Community opera”, opera condivisa: aver prodotto un’opera lirica con 150 persone. L’idea è che l’opera lirica contemporanea possa essere scritta e prodotta dalla gente. Abbiamo coinvolto bambini di 8 anni di oggi e di 70 anni fa, oggi anziani, abbiamo individuato la storia, che riguardava il nostro territorio, e scritto musica e libretto. Ne è nato un format che il Ministero della Cultura ha riconosciuto e finanziato come progetto di coesione sociale con la musica classica.  È stato un successo ed è diventato un caso studio tanto che partirà un dottorato su questo. È inoltre la prima opera completamente accessibile anche a persone non udenti e non vedenti. I non vedenti avevano tre supporti: un libretto braille per chi lo legge, la possibilità di ascoltare l’opera prima di recarsi a teatro, di entrare in anticipo per ascoltare un performer spiegare loro per la prima volta come il gesto del direttore modificasse la musica. Accanto a questo è stato creato un plastico che li ha aiutati a capire come era fatta la scena e durante tutta la performance avevano un’audioguida. Per i non udenti stiamo addirittura pensando a come scrivere un linguaggio musicale che possano comprendere.

LE PROFESSIONI

Imprenditoria culturale

L’imprenditoria culturale prevede l’interazione con numerose figure professionali del mondo dell’arte, da chi suona, a chi canta, a chi recita, a chi si occupa della regia e della sceneggiatura. Inoltre, è molto importante il rapporto con la comunità e il pubblico di riferimento, comprese le scuole e le università. Nell’ambito del teatro sociale, sono fondamentali anche i rapporti con le associazioni non profit e umanitarie che operano sul territorio. Le attività culturali fioriscono maggiormente confrontandosi con realtà analoghe, motivo per cui è molto utile entrare in contatto con reti nazionali e internazionali che operano nello stesso settore, per scambiarsi idee, partecipare a bandi per l’assegnazione di fondi, per costruire insieme nuovi progetti.