Interviste e percorsi

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Dai tuoi interessi al mondo del lavoro

Migliorare l’ergonomia e la salute sul posto di lavoro

Intervista a Marco Bergamin, laureato in scienze motorie ed esperto di ergonomia occupazionale

Immagine di copertina per gentile concessione di Marco Bergamin

Marco Bergamin, ex ciclista, dopo una laurea in scienze motorie, un dottorato in scienze mediche cliniche e sperimentali, nel 2016 da professore universitario fonda insieme a un collega uno spin off universitario che si occupa di ergonomia occupazionale. Oggi è a capo di un team di una quindicina di persone, con formazione diversa (bioingegneria, chinesiologia, fisioterapistia, osteopatia), che lavorano direttamente con le imprese erogando servizi per migliorare la salute del lavoratore.

Parola chiave: interdisciplinarietà.

INDICE

  • Che cosa trova più esaltante del suo lavoro?
  • Ci spiega che cosa fa di preciso?
  • Come si svolge una sua giornata tipo?
  • Tra le esperienze che ha maturato, quali sono le più utili per il suo lavoro?
  • Come si arriva a fare il suo lavoro?
  • Che cosa consiglia per iniziare?
  • SCIENZA IN PRATICA - Banchi di lavoro ergonomici
  • LE PROFESSIONI – Ergonomia occupazionale

PER APPROFONDIRE

  • Leggi altre interviste relative alle professioni per migliorare la salute
  • I numeri delle professioni: fisioterapia, quanti sono fisioterapiste e fisioterapisti in Italia e dove sono impiegati

Che cosa trova più esaltante del suo lavoro?

L’aspetto più esaltante del mio lavoro così particolare sono le sue due anime: l’università e l’impresa. L’università in Italia permette ai suoi dipendenti di intraprendere anche percorsi imprenditoriali, che si chiamano spinoff, per tradurre i risultati delle ricerche accademiche in prodotti direttamente utili alle persone, nel nostro caso ai lavoratori. Quello che mi entusiasma è proprio creare qualcosa che non c’era, e vedere il cliente soddisfatto. Sapere che l’operaio o l’impiegato stanno meglio: questa per me è la più grande soddisfazione professionale. Grazie allo spinoff inoltre riesco ad appassionare alla ricerca persone che altrimenti non vi si dedicherebbero, perché non si sentono portate per la vita accademica, quando invece avrebbero un ottimo sguardo da ricercatore perché sanno porre le domande giuste. Sono direttore di un master universitario per la rieducazione funzionale (il percorso di rieducazione previsto al termine di un ciclo di fisioterapia) e abbiamo molto seguito, una quarantina di iscritti all’anno, che sono attratti dal master proprio per la traduzione pratica che vedono nel nostro spinoff.

Ci spiega che cosa fa di preciso?

La prima cosa da dire è che in qualche modo questo lavoro ce lo siamo “inventato”, nel senso che abbiamo provato a pensare a come le nostre competenze di esperti del movimento potessero servire al mondo del lavoro, interfacciandoci con i bisogni delle aziende. Stiamo parlando di trasferimento tecnologico: grazie alle nostre competenze diamo vita a progetti ergonomici per specifiche professioni a seconda dell’esigenza e del problema di un’azienda o di un mercato. Accanto a questo proponiamo servizi di “educazione aziendale” per ridurre i disturbi muscolo scheletrici, che sono la causa principale di malattia professionale, e quindi, nella prospettiva delle aziende, di assenteismo e problemi nella gestione della produzione.

La parola chiave nella nostra impresa, che si chiama GymHub ed è nata dal Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova, è multidisciplinarietà. Il trasferimento tecnologico funziona solo se lavorano insieme persone con competenze diverse “contaminandosi”; il gruppo ha uno sguardo unico sul tema e ognuno propone soluzioni su una parte di problema. Intorno al nostro tavolo cerchiamo di avere ingegneri biomedici, laureati in scienze motorie, osteopati, fisioterapisti, tecnici della prevenzione, designer industriali: tutte persone che hanno studiato il movimento umano nelle sue varie forme e dinamiche. Accanto a questi, vi sono altre figure professionali che conoscano la normativa, per inserirci nel mondo industriale e del lavoro.

Come si svolge una sua giornata tipo?

Dopo aver portato mio figlio all’asilo, che è una cosa per me importantissima, vado in ufficio. La sera prima ho già guardato la mia agenda e fissato una “to do list”, cioè una lista di cose da fare, per ordine di importanza. È una pagina scritta in verde con 27 righe dove colloco le priorità settimanali. Appena arrivo in ufficio leggo la posta, bevo un caffè e poi passo, nell’ordine: dai colleghi del comparto commerciale, nell’area operation, area ricerca e nel laboratorio per capire eventualmente che esigenze hanno da me e per un briefing. Mi piace “essere sul pezzo”. Alla fine sono già le 10:30: altro caffè e le ore successive sono dedicate alla parte dei progetti più delicati.

Di solito un giorno alla settimana sono nel mio studio all’università per incontrare gli studenti e per le attività Istituzionali. Il secondo semestre poi è dedicato alle numerose lezioni. In pausa pranzo mi interfaccio con Stefano Gobbo (socio e anch’egli ricercatore), perché ci sono sempre novità, nuovi progetti. Alle 14:30 ripartono le telefonate con i clienti, e vi dicendo. Il venerdì pomeriggio verso le 16 sono solito ritrovarmi nell’ufficio commerciale per far il punto sulla fatturazione e avere la situazione economico-finanziaria sotto controllo, settimanalmente. Cerco di ricavarmi almeno un’oretta al giorno per studiare le novità, leggere gli articoli più interessanti sui miei temi. L’imprenditore deve stare sempre aggiornato; questo mi aiuta indubbiamente anche a essere un docente migliore all’università.

Tra le esperienze che ha maturato, quali sono le più utili per il suo lavoro?

Credo che la trasparenza, ossia dire la verità, sia fondamentale, così come è importante evitare la retorica. Con garbo, ma paga sempre essere diretti con il cliente, ti contraddistingue. Certo, nel breve termine può non sembrare una scelta vantaggiosa, specie in realtà più formali, ma sul lungo termine la trasparenza porta grande vantaggio, sia per la fiducia delle persone sia per te stesso. Un altro aspetto importante è l’organizzazione: o la propria, oppure – se non è il nostro punto forte – riconoscerlo e circondarci di persone che possono aiutarci a esserlo. È fondamentale per chi coordina dei progetti, di qualsiasi tipo essi siano, saper capire quali sono le priorità.

Come si arriva a fare il suo lavoro?

Io ho frequentato l’istituto tecnico commerciale, per un motivo piuttosto banale: non sapevo che cosa fare dopo le scuole medie e siccome mia mamma era ragioniera, ho scelto di fare lo stesso anche io. Al tempo a me interessava solo lo sport; facevo ciclismo a buon livello, gareggiando molto, spostandomi in tutto il nord Italia. Non era certo lo studio la mia priorità, mi bastava non essere bocciato. Mi sono iscritto all’università perché sentivo che mi mancava qualcosa, anche se non capivo ancora bene cosa, e perché sentivo che era tempo di mollare lo sport, per lo meno come lo vivevo io a quell’epoca: in maniera tossica per la mia personalità. Il mondo dello sport tuttavia continuava ad affascinarmi, e ho dunque pensato che Scienze motorie fosse la scelta più vicina alle mie corde. Poi è successo l’imprevisto: studiando davvero qualcosa che mi appassionava, ho iniziato ad avere ottimi voti, specie nelle discipline mediche. Così, alla fine del secondo anno di laurea triennale, un giorno sono tornato a casa e ho detto a mio padre che volevo mollare tutto e iscrivermi a medicina. Mio padre non ebbe lì per lì la reazione che speravo: mi disse che bisognava finire le cose che si erano iniziate, come modus operandi nella vita. E così feci, di malumore, anche se pensando a come sono andate poi le cose ora sono felice di questa scelta perché amo molto il mio lavoro di docente e imprenditore, mi ha permesso di far spaziare la creatività. Durante l’università alternavo lunghi periodi all’estero per imparare l’inglese. L’autunno dopo la maturità, al termine della stagione sportiva, per esempio, a differenza degli amici ciclisti, sono andato a lavorare in un ristorante a Londra. Qualche giorno dopo la discussione della laurea magistrale sono tornato nel Regno Unito pensando che avrei tentato lì un dottorato. Alla fine invece, è entrato in gioco un mio ex professore di Padova, che mi segnalò il bando dell’università. Non avevo nemmeno considerato l’ipotesi, ma ci provai. Andò bene e trovai nel professor Zaccaria, che era primario di medicina dello sport, il mio mentore. Abbiamo bisogno di mentori, sento di averne bisogno ancora ora. Da lì è decollata la mia carriera universitaria, finché nel 2016, a 33 anni, con il mio collega Stefano ci siamo buttati nell’avventura dello spinoff, di aprire un’azienda.

All’epoca mi mancavano tutte le competenze imprenditoriali, ma il nostro punto di forza è che siamo stati e siamo dei gran lavoratori. Per diversi anni abbiamo macinato tanti kilometri in macchina per capire come funzionano le imprese, per incontrare persone, per formarci. Bisogna applicarsi tantissimo per crearsi il proprio modello, fare l’imprenditore non è una scienza, ma più un’arte. Lo “spirito imprenditoriale” sicuramente ce l’avevo, nel senso della percezione del senso del mercato, la visione di come portare le cose a più gente possibile. Per il resto è di nuovo la multidisciplinarietà la chiave.

Che cosa consiglia per iniziare?

Nella mia esperienza con qualsiasi laurea penso si potrebbe creare uno spinoff, incluse le discipline letterarie, basta saper rispondere a una richiesta di mercato o essere in grado di crearne un’esigenza. Tuttavia, servono solide competenze: la nostra azienda funziona non solo perché abbiamo spirito imprenditoriale e sappiamo intuire i bisogni delle aziende, ma perché siamo un gruppo di persone, ognuna nel proprio settore, molto competenti. Questa è la base. Che sia scienze motorie, fisioterapia, ingegneria biomedica: serve aver studiato bene ciò che vogliamo applicare.

Dal punto di vista lavorativo, vado controcorrente: consiglio provocatoriamente di non guadare LinkedIn, ma fare esperienze. Mi spiego meglio: la strada non è cercare il lavoro più vicino con l’orario più comodo e lo stipendio più alto, a meno che non sia una scelta funzionale. Difficilmente potrà innestarsi un’idea se non si esperisce qualcosa che potrebbe essere, per esempio, migliorato.

Per immettersi su un mercato, per avere risultati bisogna fare tanti sacrifici. Attenzione: non significa stacanovismo o sfruttamento, ci mancherebbe, ma sapere che ci sono dei momenti in cui è richiesto “di più” se ci devi mettere la faccia. Per provare a fare il salto serve mettersi nella condizione mentale di fare questo balzo, cioè essere disposti a rischiare. Quando si è puliti, trasparenti, e si sa di aver dato il massimo, anche se un progetto fallisce, non importa, fa parte del gioco dell’impresa. Ci si rialza e si guarda a un nuovo progetto. Chiaramente ci si tutela. Io ho sempre avuto un piano B, e anche un piano C, quando ho iniziato la carriera accademica. Entrare in università è difficile, restarci con una posizione fissa ancora di più. Per noi lo spinoff era ed è una “garanzia”: se le cose vanno male almeno non avremo buttato via i tanti anni di ricerca.

SCIENZA IN PRATICA

Banchi di lavoro ergonomici

Ci racconta un progetto a cui state lavorando?

Un progetto a cui stiamo lavorando adesso consiste nell’ideare dei banchi di lavoro per operai di una certa filiera, usando degli avvitatori e trapani, azzeratori di peso e bracci telescopici in grado di alleviare il peso sul lavoratore. Sono tutte cose che esistono già nel mercato, ma spesso non sono viste nell’ottica d’insieme e talvolta gli ausili diventano anti-ergonomici. La domanda che nasce alla base del progetto è: posso migliorare la postazione lavorativa di un operaio o di una filiera? Ci sono indicatori ergonomici che ci informano sull’esposizione del rischio ergonomico, ma questi indicatori non sono sempre integrati con la componente (tempi e metodi) che studia l’efficienza e l’efficacia della postazione. Noi facciamo il percorso inverso: studiamo il funzionamento di alcune fattispecie generiche, capiamo che fattori interagiscono e proviamo a studiare un modello con lo scopo di dimostrare scientificamente che ci sono dei miglioramenti sul rischio da sovraccarico biomeccanico senza inefficienze produttive.

 

LE PROFESSIONI

Ergonomia occupazionale

In un’azienda che progetta e sviluppa attività e dispositivi ergonomici per il mondo del lavoro servono figure professionali di vario tipo e con varia formazione, tra cui quelle con un laurea in Ingegneria gestionale, Ingegneria informatica, Ingegneria della aicurezza, Scienze delle professioni sanitarie, Scienze motorie (chinesiologia), Fisioterapia, Osteopatia, Biomeccanica applicata al movimento umano.

Marco Bergamin - Attrezzature di lavoro

Immagine per gentile concessione di Marco Bergamin